I panni e le pannine fiorentini 'eccellenza' nella Toscana medievale

La fabbrica e il commercio dei tessuti furono uno dei motori dell’economia toscana del passato. Ebbero vita fino ai nostri giorni. Ancora qualche decennio fa – è un ricordo personale – le “Confezioni” impiegavano numerose donne e madri di famiglia che lavoravano in laboratorio o spesso e volentieri a domicilio con dei macchinari, con il fine ovvio di arrotondare le entrate di casa.
Tali attività hanno anche origini lontane e furono causa-effetto di un gusto nel vestire reso famoso dai dipinti e dalle sculture di belle persone e di abiti smaglianti nei colori o nei bei disegni.
Nel particolare di Firenze, la corporazione che nel medioevo legò i lavoratori del settore – l’Arte della Lana – fu una delle più prestigiose e redditizie della città. Giovanni Villani († 1348) scrisse dieci anni prima della peste che dava da vivere a circa 30000 persone, cioè a un terzo degli abitanti.
Il poeta Antonio Pucci († 1388) ricordò che: “La quarta [arte] è Lana, come molti sanno,| che molta gente pasce tuttavia, |e fa ben trentamilia panni l’anno”.
Bonaccorso Pitti, nei Ricordi (1432) rammentò che “Neri di Bonacorso nostro padre fecie grande ricchezza d’arte di lana e truovasi che fecie fare per anno xi centinaia di panni, de’ quali la magior parte mandava in Puglia ...”.
Anche Tommaso Contarini, ambasciatore veneto, scrisse nel 1588 che la somma dei panni di lana fabbricati in un anno in Fiorenza importava “1.300.000 ducati”.

Oltre che in questi testi conosciuti, i pregiati panni fiorentini e il loro commercio si trovano citati nei manoscritti inediti d’archivio.
Per fare qualche esempio, nell’agosto 1227 un certo Ugolino Rosso di Lucca ricevette a mutuo 25 lire di denari lucchesi da Ildebrando del fu Guido e dette in pegno “quinque petias pannorum florentinorum due quarum sunt celestre et alie sunt brune (cinque pezze di panni fiorentini, due celesti e tre brune). I suddetti panni – “tinctos de guada [pianta e tintura gialla] in acomandisiam ...”– vennero dati in accomandigia a un certo Truffa del fu Graziano che promise di restituirli a Ildebrando a richiesta.
E sempre a Lucca, in una pergamena del 1297, si parla “unius balle pannorum rossorum lini qui fuerunt cent. sex minus brachiis iiii ad rationem librarum sex et soldos pro quolibet centinaio supradictorum pannorum” (che fu centinaia 6 meno braccia 4 a ragione di Lire 6 e soldi 5 per ciascun centinaio dei suddetti panni). Fu data in conto vendita da Lapo del fu Giovanni da Firenze a Giovanni Bambacario del fu Bonaccorso per prezzo di lire 35 e soldi 5.
Nel 1410 a Pisa – che non passava certo un bel periodo a causa della guerra contro Firenze e la sottomissione del 1406 – Gherardo di Bartolomeo Compagni risultava debitore di Rinaldo di Maso degli Albizi di Firenze di fiorini 1277 d’oro s. 20 d. 1 per aver comprato “certam quantitatem pannorum de lana”. Non avendo pagato quanto dovuto, e essendo fuggito fuori città, la moglie Giovanna di Andrea Buonconti era stata “capta et detenta in carceribus Stincarum” di Firenze e sarebbe stata liberata solo se il marito avesse versato una rata sul debito.
Altri esempi dai manoscritti riguardarono anche le fiere in Toscana o fuori, della durata di generica di quindici giorni, molto ambite dai mercanti e dalle dogane. Alle mercanzie infatti veniva applicata una franchigia che rendeva la partecipazione delle società numerosa e di conseguenza la perdita presunta di imposte veniva ampiamente compensata.
Tra le fiere citate dai manoscritti troviamo quelle di San Regolo (Lucca, 1301), di Ancona (1519), di Tindari (1531), di Geraci (1578), e naturalmente una delle più famose: la fiera di Lione che nel 1553 era detta dell’Epifania o dei Tre Re (Magi).

Nel settore sempre dell’Arte della Lana, speciale menzione è dovuta anche alle pannine, che erano tessuti leggeri di lana sottile, forse di ispirazione orientale – v. la “panina” della Mecca ricordata dal mercante Cesare Federici († 1601, Viaggio in India).
Nel seicento il loro commercio fu fiorente e quello per mare così rischioso da avere bisogno della scorta delle galere di stato. Lo riportano due ricordi del maggiordomo della corte granducale Cesare Tinghi.

– 12 agosto 1612. “E a dì detto partiro da Livorno le 6 galere di S. A. et averono caricato n. 405 balle di pannine fiorentine per portalle a Me(s)sina et in qua caricare le sete soliti d’ogni anno”.
– 28 luglio 1621. “E a dì detto partiro da Livorno le 6 galere di S. A. S. sotto la coma(n)dità del generale marc(h)ese Inghilami [Iacopo Inghirami, † 1623], et la soldatesca et gua(r)dia de’ cavalieri comandata in terra dal capitano Piero Ca(p)poni capitano de’ cavalli di Pisa, dicono andare in armata con le galere del Re di Spagna. La galere di S. A. ànno portato a Me(s)sina trecento balle di pa(n)nine fiorentine, Dio le vardi [= guardi] a salvamento”.

La destinazione era la grande fiera Messina sulla quale in Toscana, come si vede, si feceva molto affidamento. La preoccupazione che il carico non arrivasse al porto infatti aveva varie ragioni. Nel 1626, ad esempio, le fiere di Sicilia non ebbero luogo a causa del contagio di Palermo e le pannine furono rimandate a Livorno. Da qui – si scrive – il tracollo dell’arte della Lana di Firenze.
Sulle pannine legiferò anche il la Reggenza e il granduca Pietro Leopoldo, tra l’altro sul nuovo marchio da apporvi: lo stemma dell’arte della Lana da una parte e il giglio della città dall’altra. Serviva alla dogana e ai suoi ministri che, alle porte della città, avrebbero dovuto verificarlo per applicare i privilegi e le esenzioni di legge.
Altre determinazioni riguardarono i tintori e le loro tariffe, le lane delle maremme senesi o pisane e le stesse manifatture che, per convenienza erano delegate a artigiani fuori di Firenze:

“Si notifica similmente come la R. A. S. ha comandato ancora con detto Motuproprio del dì 14 giugno 1769 che i fabbricanti lanaioli di Firenze siano lasciati in piena libertà di mandare ai manifattori abitanti fuori della città le loro lane o orditi a filare, tessere, o lavorarsi in qualunque altra forma secondo che tornerà loro più comodo per indi farle tornare senza che la Dogana possa pretendere alcuna gabella , salve però le cautele solite prendersi dalla medesima per assicurare che la quantità dei generi, estratti corrisponda a quella dei generi che s’introdurranno ...” (1769).

Paola Ircani Menichini, 15 febbraio 2024.
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